Anche quest'anno si è conclusa la liturgia
del Salone di Torino. "Liturgia"
non solo in senso metaforico, perché in
questa edizione l'ospite era la Santa sede.
C'era una sala tutta bianca per parlare di
religiosità e di spiritualità.
E Susanna Tamaro, madrina di questa
edizione, con una prolusione "centrata
sul fatto che nel relativismo rassegnato in
cui viviamo occorre tornare a ripristinare
una linea ben definita di demarcazione tra
bene e male, perché si può crescere solo
accettando questa sfida..." (dal
discorso di apertura di Ernesto Ferrero,
direttore della manifestazione).
Mi sembra di sentire un grido levarsi dal
web: «No, per favore, Susanna Tamaro no!».
Sono d'accordo, parliamo di altro.
Quest'anno non mi è stato possibile
andare al Lingotto. Così ho seguito il
Salone attraverso le notizie e i commenti on
line e alla TV. Con buona pace del già
citato Ferrero:
"Abbiamo bisogno di
concretezza anche fisica, gestuale, di
contro alle astrazioni di una realtà
virtuale che è sempre meno realtà e
finisce per isolarci in nuove solitudini. Il
mondo dei social network a me sembra un
mondo di solitari che gridano nella vana
speranza che qualcuno li ascolti, ma non si
può chiedere ascolto agli altri se noi per
primi non siamo capaci di ascolto. Il
Lingotto dice una cosa radicalmente diversa:
qui quando si parla e si discute ci si
guarda negli occhi. Meglio vedersi di
persona che contrabbandare via smartphone o
tablet un’immagine fittizia di sé."
Forse Ferrero ha ragione. Il Salone come
"realtà virtuale" mi è sembrato
una processione, pardon, una sfilata di
prelati, ministri, personaggi televisivi,
intellettuali a tempo pieno o part-time. E
di cuochi, anzi di chef. Perché nel
Salone della spiritualità c'era anche posto
per i piaceri della carne, con uno spazio
importante dedicato alla cucina.
Così si rivela il difetto fondamentale
di questa edizione (e forse non solo di
questa). E' noto che i soli libri che
"tirano" in questo periodo sono
quelli che parlano del Papa e le ricette di
cucina. Ed ecco il Salone... cucinato sulla
misura del mercato editoriale.
Ma seguire le mode non serve a costruire il
futuro.
In Italia si deve rilanciare il libro per
quello che è. Occorre promuovere la
letteratura e incoraggiare la lettura.
Preghiere e ricette non si leggono: si
recitano o si eseguono. E in questa,
forse più che in altre edizioni, ci sono
stati tutti i protagonisti possibili, tranne
"il libro".
Il libro di qualità. Il libro che resta
nella biblioteca domestica o nella memoria
dell'e-reader, la lettura come nutrimento
del pensiero. Invece ho visto, nella puntata
di domenica scorsa di Che tempo che fa,
Fabio Volo dal Salone che sproloquiava di
libri alla rinfusa e faceva passare la
voglia di leggere anche a uno come me.
Poi si lamentano che in tre anni la
vendita di libri è calata del venti per
cento. Che un best-seller vende poche
migliaia di copie. Che gli ebook crescono.
Qualcuno arriva a dare al Kindle la colpa
della chiusura di tante librerie. Il conto
non torna: se gli ebook rappresentano solo
il tre per cento del mercato, come possono
causare una perdita di oltre il sei per
cento, quest'anno, nella vendita dei libri
di carta?
Si dice che è colpa della crisi
economica. In parte può essere vero. Ma la
vera crisi del libro è la crisi della
qualità. Se si pubblicassero libri
migliori, forse ci sarebbero più lettori. Tante brave persone che vorrebbero leggere
un buon libro, ma trovano solo salmi e
ricette. O banali esercizi di scrittura di
personaggi della TV.
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