1. Mercoledì
Il cielo su Palermo. Ore
10.42
«Cleared to land», Atterraggio autorizzato.
Poi solo rumore. L’ATR 72 ha perso il contatto radio con
l’aeroporto Falcone e Borsellino. All’improvviso gli
strumenti sono impazziti. Sotto la pioggia battente l’aereo
cieco e sordo esce dal fitto strato di nuvole.
Il comandante De Mauro sbarra gli occhi davanti alla
massa scura. «La montagna! Riattacca!». Il secondo pilota Berruti dà potenza ai motori e
riporta tra le nubi grigie l’aereo che balla nella
turbolenza. Schiaffi di pioggia sui finestrini.
«Palermo approach India Foxtrot Alfa Kilo, radio
check», chiama il comandante. Nessuna risposta. In
cuffia solo un fruscio assordante.
«Dev’essere una tempesta magnetica, e bella forte».
«Strano, non arrivano mai senza preavviso. Non è mai
facile atterrare a Palermo, tra il mare e la montagna,
spesso col vento a raffiche e il wind shear. Ma se
adesso ci si mettono anche la radio e gli strumenti fuori
uso… Palermo approach India Foxtrot Alfa Kilo, radio
check».
De Mauro fissa il quadrante del TCAS, lo strumento che
segnala la vicinanza di altri aerei. Nessun allarme. Ma
funziona?
«Palermo approach India Foxtrot Alfa Kilo, radio
check».
La risposta è solo il soffio che continua.
«Palermo approach India Foxtrot Alfa Kilo, radio
check».
Palermo non risponde. Il rumore in cuffia sembra sempre
più forte. Ma adesso le nuvole sono in basso. Sopra c’è
di nuovo l’azzurro.
«Quale rotta, comandante?», chiede ironico il
secondo.
«Bella domanda. Poco fa su Napoli il tempo era
buono». Butta l’occhio sugli strumenti inservibili, poi
guarda il sole e indica la rotta puntando l’indice verso
Nord. «Dobbiamo informare i passeggeri del contrattempo…».
Il cielo su Malta.
Ore 10.44
Poche nuvole, buona visibilità. Il Boeing 737 aspetta
l’autorizzazione all’atterraggio, ma da due minuti il
comandante Roberts ha perso il contatto con la torre di
controllo. In cuffia sente solo un forte rumore. Anche gli
strumenti danno indicazioni strane. Ma l’aereo è
allineato, la pista è libera. Atterrare a vista non è un
problema. Roberts stacca il pilota automatico e prende i
comandi manuali.
«Attento a ore due, c’è un aereo che entra in
pista!», urla il secondo pilota Clark e alla vista di un
vecchio caccia Mig 23 che vira stretto da Est sotto il
737.
«Go around», grida Roberts. Dà potenza ai
motori e riprende quota. «’rca miseria, c’è mancato
poco che gli piombassimo addosso».
«Senza contrassegni…», osserva Clarke. «Ma con
quei colori mimetici deve essere libico».
Brindisi. Centro di
controllo d’area. Ore 10.46
«Non funzionano neanche i telefoni», urla il
direttore della sala del Centro di controllo d’area.
«Continuate a chiamare tutti gli aerei, usate anche la
frequenza di emergenza, cercate di contattare tutti gli
aeroporti, chiamate la Difesa, provate anche le frequenze
HF».
Da quattro minuti sono caduti i contatti con tutti gli
aerei in volo. Gocce di sudore sulla fronte degli
operatori radar. «Direttore, ancora nessuna comunicazione
con gli aerei. C’è solo un rumore assordante su tutte
le frequenze. Anche i radar hanno problemi».
«Avvisatemi se vedete conflitti di traffico. Tenete d’occhio
l’ACAS. Ma che cavolo sta succedendo? Deve essere una
tempesta magnetica… Possibile che non ci abbiano
avvertito? In questi casi ci avvisano sempre in
anticipo».
In tutte le sale di controllo del Mediterraneo
centrale, da Malta a Marsiglia, la preoccupazione diventa
paura e senso di impotenza. Gli operatori osservano sugli
schermi gli spostamenti di decine di aerei. Ma sono solo
targhette che si muovono tutte insieme, sorde e mute.
Risuonano gli avvisi acustici dei potenziali conflitti
di traffico. Ma nessuno può sapere se sono allarmi reali
o disturbi causati da una tempesta magnetica. O da chissà
che cosa.
Roma, aeroporto di Ciampino.
Ore 10.47
Tre persone siedono intorno a un tavolo in una saletta
riservata dell’aeroporto militare. Sono il
generale Alfonso Mattei, direttore dei servizi segreti
esterni, il suo aiutante maggiore Giuseppe Aliforni e l’assistente
del ministro della Difesa dottoressa Viviana Salvi.
Il generale vede dalla finestra il Falcon 900 EX che
rulla sulla pista sotto la pioggia. Chiude il fascicolo e
lo ripone nella cartella. «Andiamo, maggiore Aliforni,
quello è il nostro aereo… Ci mancava anche la pioggia…
Dottoressa Salvi…».
Bussano alla porta. Entra un capitano dell’aeronautica.
«Il suo aereo è pronto, signor generale. La procedura
per i voli segreti è attivata. Ma dobbiamo aspettare,
perché sembra che ci siano delle interferenze radio e non
riusciamo ad avere il via libera da Malta, che è ancora
in attesa della conferma da Tobruk».
«Grazie, capitano Amici. I nostri caccia sono già in
volo?».
«Due Eurofighter hanno i motori accesi e sono pronti
al decollo da Pratica di Mare. La scorta all’aereo
che parte da El Adem è assicurata da Malta, perché i
libici in questo momento hanno buoni motivi per non far
alzare quel che resta dei loro Mig».
«Va bene, aspettiamo». Il generale guarda l’orologio
con una smorfia di disappunto. «Dottoressa Salvi,
assicuri il ministro che la prossima settimana, nell’audizione
alla Commissione parlamentare, non farò cenno di questo
incontro con il mio omologo del governo di Tobruk. Al
ministro riferirò direttamente, anche stasera al mio
ritorno, o comunque domani mattina».
«D’accordo, generale. Credo che il ministro questa
sera abbia una cena ufficiale. Comunque dovrei vederlo tra
poco in ufficio».
Mattei guarda fuori dalla finestra. «Aliforni, hanno
messo la scaletta. Credo che intanto possiamo
imbarcarci». Si alza e si avvia all’uscita, seguito
dagli altri due. Ma il capitano Amici è di nuovo sulla
porta, con un walkie-talkie all’orecchio. «Signor
generale, c’è un black-out totale delle comunicazioni.
I radar sono impazziti, i computer non funzionano. Dalla
torre di controllo non riescono a comunicare con gli aerei
in volo. Sembra una tempesta magnetica… Un attimo…
Sì, sì, riferisco», dice nel telefono. «L’interferenza
sembra cessata, ma dalla torre non autorizzano il decollo.
Si deve aspettare almeno fino a quando non sarà
individuata la causa del problema e tutti i sistemi non
saranno ritornati alla normalità».
Il generale ha un gesto di stizza. «E quanto tempo ci
vuole?».
«Signor generale, non possiamo saperlo. Forse minuti,
forse ore».
«Ci mancava anche questa! Aliforni, avvertite Malta e
Tobruk che l’incontro è rimandato per cause di forza
maggiore. Faccia chiamare l’autista e rientriamo in
ufficio. Questo contrattempo non ci voleva… Speriamo che
a Tobruk non pensino che vogliamo evitare l’incontro.
Stabiliamo una nuova data, prima possibile».
Il capitano Amici compare di nuovo. «Signor generale,
la sua macchina è qui fuori. Ma il traffico sulla via
Appia è completamente bloccato. Le comunicazioni
funzionano sulle linee di emergenza, ma i computer hanno
ancora problemi. Non so se è il caso di usare un
elicottero…».
«Perché no? Da qui al centro di Roma si può volare a
vista, non abbiamo tempo da perdere. Dottoressa Salvi, è
probabile che dal ministero la stiano cercando. Le
possiamo dare un passaggio, se vuole».
Tripoli, Central Business
District. Ore 10.48
Cipiglio autoritario, tuta mimetica e Kalashnikov al
fianco, gli scarponi del poliziotto rimbombano nei
corridoi vuoti del Central Business District. L’ingegner
Charles Leblanc lo segue. Di media statura, asciutto. La
barba ben curata, tra il rossiccio e il grigio, e gli
occhiali sfumati dalla montatura spessa rendono vaghi i
lineamenti. Il poliziotto bussa a una porta come tutte le
altre, ma protetta da altri due tipacci in mimetica e
Kalashnikov. In una grande stanza anonima due uomini e due
donne davanti ai computer.
Si apre una porta laterale e appare il ministro Mohamed
Shalaby. Alto, massiccio, i capelli candidi. Impeccabile
completo blu, l’aria di un importante uomo di affari
più che di governo. Tende la mano e invita Leblanc ad
entrare. Il disadorno ufficio dirigenziale non ha l’austera
imponenza di una stanza governativa. Solo l’enorme
scrivania rivela l’importanza del personaggio.
«Signor Leblanc», dice Shalaby nel suo buon inglese,
«noi sappiamo bene che se rimettiamo in funzione l’aeroporto
adesso, il cosiddetto governo di Tobruk o il sedicente
Stato islamico lo bombardano il giorno dopo. Ma questa
situazione non può durare all’infinito e verrà il
giorno in cui Tripoli sarà riconosciuta come unica
capitale della Libia. In quel momento l’aeroporto
internazionale dovrà funzionare. Vogliamo essere
pronti».
L’ingegnere ascolta impassibile. Dietro gli occhiali
il suo sguardo è fisso sul ministro, ma sembra che guardi
più lontano.
«Lei capisce, signor Leblanc, qual è il nostro
obiettivo. La situazione internazionale appare bloccata,
ma lei sa che lo scenario è in evoluzione. Il nostro
governo non è riconosciuto ufficialmente da molti Stati,
che però stanno trattando con noi, perché solo noi siamo
in grado di dare alla Libia un assetto stabile. E lo
dimostreremo anche con la normalizzazione dei rapporti
commerciali, oltre che istituzionali. Per questo la
ripresa dell’attività dell’aeroporto internazionale
sarà un segnale importante, al momento opportuno».
Leblanc fa un cenno di assenso. «Capisco, signor
ministro. Se la situazione è quella descritta nel dossier
che ci avete inviato, noi possiamo presentarvi un progetto
di massima nel giro di un paio di settimane. Comunque ne
riparleremo dopo il sopralluogo che abbiamo previsto per
domani. Devo vedere se c’è qualcosa di recuperabile
dagli impianti che abbiamo messo in funzione prima del
2011. Il problema è che non possiamo installare nulla
prima che le strutture essenziali dell’aeroporto siano
riparate o ricostruite. Nel frattempo possiamo mettere a
punto un progetto dettagliato, ordinare e predisporre
tutte le apparecchiature e iniziare la formazione del
personale. Tutto questo richiede tempo, forse più di tre
mesi prima di passare alla fase operativa».
Squilla uno dei telefoni sulla scrivania del ministro.
Mentre solleva la cornetta suonano contemporaneamente un
altro telefono e un cellulare.
«Scusi, signor Leblanc». Il ministro parla in arabo
alternando i telefoni all’orecchio. Sembra allarmato. Un
giovane entra e gli dice qualcosa in tono concitato. Il
ministro chiude una comunicazione, appoggia l’altro
telefono sulla scrivania, si rimette in tasca il
cellulare. Scrive rapido un appunto, lo consegna al
giovane e gli dà una serie di istruzioni in tono di
comando. L’assistente va via di corsa.
Dopo un attimo il ministro si rivolge all’ingegnere
con un sorriso di circostanza. «Signor Leblanc, mi
dispiace, dobbiamo interrompere la nostra conversazione.
Si sta verificando un’emergenza. La prego di scusarmi.
Purtroppo non possiamo rivederci domani, perché c’è
una riunione del governo alla quale non posso mancare.
Venerdì per noi è una giornata festiva. Se per lei non
è un problema trattenersi a Tripoli fino a sabato…».
L’ingegnere non cambia espressione. «Non è un
problema, devo solo spostare il volo. Ma domani posso
andare a vedere l’aeroporto, come avevamo
programmato?».
«Certo, la faccio accompagnare da un mio assistente».
Si alza e fa passare l’ospite nell’ufficio-anticamera,
dove gli impiegati parlano concitati ai telefoni. Il
ministro si rivolge al giovanotto che era comparso poco
prima, un tipo smilzo che assomiglia in modo preoccupante
al giovane colonnello Gheddafi del colpo di stato del
1969. «Jibril verrà a prenderla in albergo domani
mattina alle dieci, se per lei va bene. Le faccio chiamare
un taxi?».
«Grazie, preferisco fare due passi».
«Arrivederla, signor Leblanc, e mi scusi ancora per il
contrattempo. Spero che il suo soggiorno a Tripoli sia
piacevole. Si rivolga pure a Jibril per qualsiasi
necessità», conclude il ministro chiudendo la porta alle
spalle dell’ingegnere.
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